Conta ciò che sono, non ciò che sembro (Mt 23, 25-29 - Mt 6, 16-18 - Mc 7, 14-23 - Mc 11, 12-14) - don Franco Barbero

Una cosa proprio a Gesù non andava giù, non riusciva a sopportarla: che certa gente volesse figurare in un modo mentre poi viveva in un altro. Gesù non tollerava questa ipocrisia, questo voler apparire buoni e far bella figura, quando il cuore e la vita sono tutt'un'altra cosa.

Sentite che parole dure troviamo nel Vangelo di Matteo: «Guai a voi, ipocriti, maestri della legge e farisei! Voi purificate l'esterno dei vostri piatti e dei vostri bicchieri, ma intanto li riempite dei vostri furti e dei vostri vizi. Fariseo cieco! Purifica prima quel che c'è dentro il bicchiere, e poi anche l'esterno sarà puro. Guai a voi, ipocriti, maestri della legge e farisei! Voi siete come tombe imbiancate, ben colorate: all'esterno sembrano bellissime, ma dentro sono piene di ossa di morti e di marciume. Anche voi, esternamente, sembrate buoni agli occhi della gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di male». Gesù rivolse questo ammonimento così severo (lui che era sempre così dolce!) non solo ai farisei (che spesso erano anche sinceri) e ai maestri della legge, ma contro ogni forma di “mascheramento", di ipocrisia. Per Gesù conta ciò che noi siamo davanti a Dio. Dio conosce i nostri cuori, le nostre intenzioni.

Ve lo ricordate quel brano così bello e significativo del Vangelo? Gesù, quando ormai molti stavano congiurando per ucciderlo, entrò nello splendente Tempio di Gerusalemme e si mise ad osservare la gente che metteva i soldi nelle cassette delle offerte. C'erano molti ricchi che buttavano dentro molto denaro. Proprio come succede oggi: spesso i ricchi vanno in chiesa e mettono nelle offerte dei bigliettoni da diecimila, spesso più che altro per farsi vedere come gente generosa! Anche una povera vedova si avvicinò alla cassetta delle offerte e vi depose due spiccioli, due piccole monete di rame. Tutti avevano notato le offerte dei ricchi e avevano sentito il rumore delle grosse monete, ma chi si era accorto di quelle monetine deposte da una povera vedova? Proprio nessuno ci aveva fatto caso. Gesù allora chiamò i suoi discepoli e disse: «Vi assicuro che questa povera vedova ha dato un’offerta più grande di quella di tutti gli altri! Infatti gli altri hanno offerto quello che avevano d'avanzo, mentre questa donna, povera com'è, ha dato tutto quello che possedeva, quello che le serviva per vivere» (dal vangelo di Marco al capitolo 12). Che insegnamento prezioso ha dato Gesù ai discepoli: non lasciatevi colpire da ciò che appare, da ciò che “fa figura", da ciò che colpisce lo sguardo... Cercate piuttosto di guardare in profondità. Imparate a giudicare, a valutare le cose come Dio che guarda al cuore delle persone. Quella povera vedova che nessuno osservava, quel gesto che nessuno aveva apprezzato, per Gesù era “grande”. Gesù ci insegna a guardare alla sostanza, non alle apparenze. Sovente sotto apparenze bellissime c'è il marcio, c'e tutto il contrario del bene. Ricordate le parole di Gesù sulle tombe che fuori sono bellissime, ma dentro sono piene di ossa di morti? Conta di più ciò che c'è dentro il piatto oppure tu ti accontenti di un piatto, bello di fuori, anche se dentro c'è del veleno, del cibo avariato?

 

Bibliografia e annotazioni:

* Ci è sembrato importante, specialmente con i più grandicelli, tenere conto dell'attuale realtà sul piano dei mezzi di comunicazione di massa. Esistono, per esempio, rischi non indifferenti di videodipendenza. Siamo alla piena resurrezione delle stars, dei divi e un Olimpo di vedettes domina la nostra cultura di massa. Un divismo spettacolarizzato che, mediante la forza dei mezzi di comunicazione, finisce per diventare una proposta e un modello di vita. Lo spettacolo dilaga ovunque, l'immagine guadagna terreno, la televisione spiazza il giornale, la pubblicità trasforma un nano in gigante. La politica non fa eccezione, a tal punto che qualcuno è giunto a parlare dello "Stato spettacolo". Si tratta di uno Stato che si trasforma in compagnia teatrale, in "produttore" di spettacoli, perché la politica inclina alla messinscena e il dirigente politico che "ha successo" si esibisce come una vedette. Secondo questa concezione della vita e della politica, chi non dà spettacolo non conta, anzi non esiste neppure. Ecco allora la caccia ai mezzi di comunicazione di massa che permettono, a chi ne può disporre, di prodursi in spettacolo a tutta la nazione o a fette consistenti di essa.

Tutto questo non capita casualmente. La politica dell'immagine ha obiettivi chiari: diventa una fabbrica di consenso, una persuasione finissima, una violenza alla quale ci si arrende quasi piacevolmente, inclinando gradatamente verso un regime di sottomissione consensuale. Mentre il filtro del potere agisce da setaccio sulla qualità dell'informazione e decreta la "sparizione" dei non allineati, il rischio che i telespettatori corrono è quello di entrare in un mondo non di cose in sé, ma di immagini.

Guy Debord, uno studioso di questo fenomeno, osserva che lo sforzo di tutti i poteri costituiti in questi ultimi due secoli è sempre stato quello di isolare la gente, portarla via dalla strada, cioè dall’impegno collettivo, e i mezzi di comunicazione si sono prestati a questa opera. Lo spettacolo ha prodotto impoverimento, asservimento e negazione della vita reale.

Quando la vita si adagia nello "spettacolo" si verifica la perdita di contatto con la prassi e si produce la falsa coscienza dell'incontro, l’illusione di incontrare in casa propria tutto il mondo proprio mentre si diventa passivi e spettatori.

Gradatamente l'abitudine all'immagine crea bisogni diversi, plasma i modi di pensare e di sentire a tal punto che moltissimi telespettatori finiscono col volere dalla televisione, per esempio, non l'informazione ma solo il divertimento.

Lo "spettacolo politico" è, dunque, chiaramente conservatore. «La cultura dello spettacolo politico è la rappresentazione ingannevole della democrazia, il simulacro della cultura di partecipazione L’individuo si crede libero, attivo, influente, si considera un attore del sistema politico, quando non è che uno spettatore» (G. Borgna).

La tentazione che i cittadini subiscono in simili situazioni è quella di consumare e trangugiare montagne di spettacoli "divertenti" e "piccanti", di servizi speciali e di rubriche ben confezionate, camuffate da informazioni di prima mano, "oggettive", e "neutrali", libere e democratiche. Ma la spettacolarità è assenza di informazione e di partecipazione. E così il potere, evitando guai che deriverebbero dalla nostra protesta, ci ha introdotti nel gioco scenico e ci ha estromessi delicatamente dal gioco democratico reale.

Così pure quando una chiesa produce tanto spettacolo, è segno che non crede nella predicazione del vangelo e nella partecipazione. Quando un partito o una forza politica si aggrappa disperatamente alla spettacolarità, lascia intendere quale strada ha scelto: vuole creare dipendenza, acriticità e consenso per far regnare il ducetto di turno. È possibile gestire un rapporto vigilante con i mezzi di comunicazione di massa, senza per altro demonizzarli? Occorre una buona dose di igiene mentale e una grande capacità di stare al mondo con spirito critico e partecipazione reale ai problemi del tempo e del luogo in cui viviamo.

* Si vedano alcuni studi interessanti comparsi nel volume AA. VV., In nome del Padre, Editori Laterza, Bari 1983; G. DEBORD, La società dello spettacolo, Vallecchi, Firenze 1979.

* Potenza persuasiva dell'immagine: si pensi quanta “ideologia imperiale" contenevano le trasmissioni televisive dei giochi olimpici di Los Angeles dell'agosto 1984.

Ci sono comportamenti e fatti anche ecclesiastici che ci sembrano vere e proprie orge di pubblicità?

* Ovviamente nel nostro lavoro non poteva mancare la riflessione sul “modello americano", sui processi di serializzazione, sulla civiltà informatica, sul computer. Si veda il contributo di U. ECO in La riscoperta dell'Amenca. Laterza, Bari 1934, pag. I5-32. Così pure F. FERRAROTTI, in AA. VV., Verso il duemila, Laterza, Bari 1984, pagg. 19-67. Nello stesso modo ci è sembrato essenziale dedicare un po' di attenzione alla realtà profondamente diversa che sta avanzando con l’ingresso sempre più massiccio dell’informatica nella nostra vita quotidiana. Per non essere totalmente tagliati fuori da questi problemi (che investono anche il terreno della nostra testimonianza cristiana) ci sono parsi utili alcuni volumi che documentano l’attuale processo e il dibattito che lo accompagna, anche se le cose corrono e la discussione scarseggia. Si veda: DOUGLAS R. HOFSTADTER, Godel, Escher, Back: Un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984; JOHN SEARLE, Menti, cervelli e programmi, Clup Milano, 1984; DAVID RITCHIE, Il doppio cervello. Intelligenza artificiale e intelligenza naturale nell'era elettronica, Edizioni di Comunità, Milano 1984; Il manifesto in La talpa, di giovedì 14 dicembre 1984 Forse occorrerà, anche su questo terreno, evitare sia la demonizzazione sia la osannante celebrazione che sfocia in una accettazione acritica.

* ROSELLINA BALBI, in Madre Paura, Mondadori 1984, pag. 163, compie alcune osservazioni che merita qui riassumere: «Già oggi assistiamo all'accentuarsi di una dipendenza psicologica dell'uomo dalla macchina. Basterebbe osservare le conseguenze, per i nostri bambini, delle tante ore quotidianamente trascorse davanti a uno schermo televisivo. Essi perdono la capacità di imparare dalla realtà perché rischiano di non distinguere bene ciò che è finzione da ciò che non lo è. Ricordo, a questo proposito, di avere letto una storiella abbastanza significativa: un uomo e suo figlio vanno a fare una gita in macchina, poi si verifica un guasto e il padre cerca, senza successo, di ripararlo. Alla fine il bambino, spazientito, gli dice: «Papà, ma perché non cambiamo canale?». Conseguenze certamente più rilevanti possono derivare dalla "seduzione" che su di noi esercitano le macchine "intelligenti". Non vorrei essere fraintesa: esse ci sono di grande aiuto, semplificano ed accelerano la soluzione di molti problemi. Ma il fatto è che noi ne subiamo sempre più il fascino, le ammiriamo, ne facciamo a volte dei veri e propri feticci, ci affidiamo a loro anche quando non sarebbe necessario, per ottenere senza sforzo, e soprattutto senza dubbi, le indicazioni che ci occorrono. Non esiste solo il pericolo, al quale ho già accennato, dell’affievolirsi del senso di responsabilità; ne viene coinvolto il nostro stesso modo di pensare. Dicevo che la macchina ci libera dai dubbi; ora, il rischio sta proprio qui, nel far nostra la logica del computer, quella logica gelida, astratta, vorrei dire implacabile, che non soffre di esitazioni, non è intralciata da problemi morali, non conosce il travaglio, quasi mai lineare, della creatività. Ma il dubbio è un elemento di forza per il pensiero umano, non di debolezza; quando si dubita si può dire di sì e si può dire di no; naturalmente si rischia di sbagliare, ma si esercita la facoltà, propria dell’uomo e che nessuna macchina potrà mai possedere, di scegliere, di decidere tra ciò che riteniamo giusto e ciò che riteniamo ingiusto. Si sente parlare molto, oggi, dell'intelligenza delle nuove generazioni, e probabilmente esse sono effettivamente più intelligenti di quelle che l'hanno preceduta; ma questa crescita dell'intelligenza è accompagnata da una parallela crescita - o, quanto meno, non avviene a discapito - della ragione? L’intelligenza, ha detto qualcuno, è il pensiero al servizio dell’esistenza fisica, mentre la ragione (o, in senso più ampio, la coscienza) spinge l'uomo ad andare “oltre”. Se questo stimolo si indebolisse, l’uomo rischierebbe di diventare, anche per questa via, “il tipo ideale", secondo l'espressione di Lewis Mumford, «richiesto, benché mai interamente realizzato,... dai comitati di pianificazione dei governi totalitari o quasi tatalitari». «I quali tuttavia non rassomiglieranno necessariamente a quelli che li hanno preceduti; essi avranno infatti la capacità di farsi amare, perché libereranno i cittadini dal tormento del pensare. Pensare sta diventando sempre più una scelta coraggiosa» (Idem pag. 163-164). Non si tratta di una pagina apocalittica, ma di un tentativo di guardare avanti, dentro la selva dei problemi che sono ormai una realtà di cui stentiamo a prendere coscienza. Discernere, dunque, non demonizzare.

* Sul piano biblico (e riportiamo questa annotazione perché ci sembra di estrema rilevanza) ci siamo costantemente sforzati di tenere insieme, intimamente connessi, evangelo ed etica. L’annuncio di fede non può non incidere sul piano etico. Il discepolo è chiamato a diventare tale nella completezza di una prassi che comporta la capacità di compiere scelte precise, anche difformi dalla “cultura" vincente. Il vangelo ci sembra possa essere sperimentato come il dono che Dio ci fa di una forza che abilita a scelte di libertà, di rottura, di "novità". Ma, proprio per non svigorire il vangelo, occorre non ridurlo né a codice etico, né a predica moralistica, né a raccolta di detti parenetici (= esortativi). Per questo motivo, quando abbiamo individuato ed esaminato con il criterio evangelico il comportamento "ipocrita", non ci siamo limitati a farne una descrizione in termini di "vanagloria” ma abbiamo cercato di cogliere il piano teologale, profondo. Si veda al riguardo G. BARBAGLIO in Servitium 34/1984 (“Nel segreto del cuore”). L’Autore dedica pagine lucide ed efficaci per tratteggiare la pratica "ipocrita" di chi si crea un pubblico ed erige un monumento a se stesso, snaturando così l’opera “religiosa” compiuta perché la devia dalla sua naurale finalità per farla servire al culto del proprio io. Se la preghiera era finalizzata a lodare Dio, l’ipocrita la perverte nella sua finalità essenziale e la "usa" per incensare se stesso.

Non si deve certo mettere tra parentesi il piano etico, ma occorre vigilare perché non è facile agganciarlo alle profondità teologali del messaggio evangelico. Per noi è un orizzonte in gran parte ancora inesplorato.

* Nel richiamare l’evangelico “Non giudicate" ci siamo guardati bene dal farne una lettura spiritualista e deresponsabilizzante. Troppo facile non giudicare nulla e nessuno! Non è scritto anche: «Esaminate tutto e tenete ciò che è buono» (1 Ts. 5,21)? Una cosa è “sputare sentenze" inappellabili con la pretesa di scandagliare le intenzioni profonde dei cuori, credendo di sostituirsi a Dio, altro è, invece, assumersi la responsabilità di vagliare ed esaminare. Si vedano i commentari per gli adeguati approfondimenti.

*È un concetto molto difficile prima dei dieci anni, ma forse con alcune esemplificazioni è possibile evidenziare la netta differenza esistente tra semplicità e semplicismo. Occorre, in ogni caso, che l'adulto si chiarisca anche concettualmente, prima di avviare una ricerca con i bimbi. Come diventare semplici come colombe senza cadere nel semplicismo? La semplicità, vissuta dentro la complessità sociale e culturale di oggi, è una meta difficile.